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IMPETO RISPLENDENTE DI ALTA QUOTA - Giorgio Pellegrini
la nostra moderna sensibilità ci induce ormai a scoprire maggiori elementi di bellezza e di grazia, più in una macchina che in un modello di statua greca.
Qui sono pienamente d'accordo con marinetti.
Italo Balbo, stormi d'Italia sul mondo, 1934
L'affermazione dichiaratamente futurista di Balbo, in estatica contemplazione del suo atlantico S.55, precede di poco meno di un anno l'assunto perentorio di un Le Corbusier "aeronautico" entusiasta. "Un nuovo stato di moderna coscienza. Una nuova visione plastica. Una nuova estetica": così scandisce il grande architetto svizzero, ispirato dai bolidi volanti, nel volumetto - Aircraft - che dedica tutto, nel 1935,
all'aeroplano: solo una manciata di parole disseminate tra centoventicinque superbe ed eloquenti immagini fotografiche di velivoli, tra cui spiccano tre splendide inquadrature - manco a dirlo - dell'S.55.
Pilota e architetto confermano allora l'avvento reale e rivoluzionario della modernità, incarnato tutto nella sola forma dell'aeromobile e insieme la piena maturazione postbellica del portato futurista, anch'esso infine convertito letteralmente all'aviazione, già sul finire degli anni venti, con il Manifesto dell'Aeropittura.
Forte, veloce, violento: tutto quello che il Futurismo aveva sognato e teorizzato nel suo delirio macchinico e guerresco d'inizio secolo, si traduceva finalmente nella realtà scattante e metallica di quelle meravigliose macchine volanti che cominciavano, proprio in quegli anni trenta, a superare il muro impensabile dei trecento orari. Dentro la carlinga, a tremila metri d'altezza, il dinamismo visionario invocato vent'anni prima da Marinetti diventa verità concreta, esaltante, quotidiana. Ed è ancora un pilota, Valentino Tocci, caduto in Spagna nel '38 a dimostrarlo, quando paragona le conseguenze di una cabrata estrema nei cieli d'Aragona a "...un'interminabile capriola nel paesaggio di un futurista".
Nonostante l'orrore caotico di una seconda guerra mondiale e tutte le sue sinistre conseguenze ideologiche e culturali, ancora e soprattutto oggi, contro uno scenario dell'arte esausto sino all'afasia e imbolsito dal cinismo del mercato, spicca, nitida, la bellezza della macchina. E in modo particolare della macchina volante, che si è inesorabilmente perfezionata: sintesi plastica e funzione aerodinamica, fuse sino ad esiti quintessenziali, sono capaci più che mai di provocare, autentiche, fortissime sollecitazioni nella sfera dell'emozione estetica.
Sulla profonda consapevolezza del senso pieno ed acuto di questo valore, poggia tutta la fascinosa carica postmoderna dell'opera pittorica di Marcella Mencherini. Artista ferrata nella padronanza di modelli culturali perfettamente assimilati ma ancora abile a muoverli e accordarli - con sapiente "portanza" - nella scia potente dell'oggettiva bellezza plastica dell'aeroplano: di ieri e di oggi.
Innanzitutto magistrale è l'uso del colore, in quel succedersi e sovrapporsi di preziose, quanto minuziose cortine policrome, dove freme ancora una sorta di vibrato divisionista, ad attenuare il rigore geometrico della scomposizione futurista. Ne deriva una varietà emozionante di soluzioni dinamiche, generose di una spavalderia aeropittorica che sorprende nella sua freschezza e ancora una figurazione mossa eppure distesa, generosa di dettagli minuziosi e capace di tradurre la commozione metafisica delle alte quote in una sorta di nuovo, prepotente "realismo magico". Come in quelle visioni mulinanti dove aria, terra ed acqua si avvitano insieme nel lusso cromatico di una formula spaziale diafana, nebulosa, che sa accendersi all'improvviso nell'oro caldo di un'aurora, abbagliante come uno squillo, levato all'ardimento del pilota nell'infinito.
La prospettiva "altissima", di schietta scuola aeropittorica diventa, nelle tele di Marcella Mencherini, una regola linguistica che l'artista sa manipolare con sicurezza e originalità di nuova tendenza e che ripete in singole versioni sempre diverse seppure vicine: scorci dinamici di orizzonti terracquei o urbani, isole centripete e scattanti promontori e laghi, spalancati come occhi glauchi di giganti e tetti rotanti in stormi spiralici e tumultuosi formicai umani e torri e minareti e chiese e Colossei, modellati da vortici veloci in vertiginose fughe celesti. Cieli profondi di smisurate ombre notturne, solcati d'alluminio frecciante o balenare di vampa solare, che scintilla sui volumi risplendenti delle fusoliere.
Stupendi bolidi di ieri e di oggi, ritratti senza nulla mutare della prestanza estetica di quelle macchine prodigiose, senza deformarne quella comune compiutezza plastica, sempre straordinaria: vuoi nella brusca sintesi cubista dei primi biplani, vuoi nella complessità elegante e spigolosa di quel mitico marinaio volante e domatore di oceani che fu l'S.55, vuoi nell'algida sobrietà minimalista dell' Eurofighter, affilato come il rostro di un'aquila.
E in questa avvincente imagerie alata, a volte quasi fiabesca eppure sempre vera, analitica persino, del "Volare Necesse Est", densa di macchine e di vento, coccarde e derive, frastuono di jet e ronzare remoto di bene oliati motori a stella - immerso tutto nel sontuoso pulviscolo cromatico degli incessanti flussi dinamici - sembra di cogliere, storditi e abbacinati, una sorta di impercettibile eppure persistente "aerorumore". Singolare melodia meccanica, musica di macchine, capace però di sinuosi echi siderali: figlia sonora di quelle acrobazie plastico-dinamiche arabescate veloci sulla tela. E figlia ancora di quella storica Aeropittura, ultima nata del Futurismo italiano, la cui breve e sfortunata parabola sembrava precipitata nell'oblio, ingoiata dalle macerie di una guerra che aveva fatto dell'aeroplano il suo strumento più implacabile. Risorge invece, oggi, tutto l'impeto di quella scuola di visionari imbullonati, vivo di nuova forza e di nuove forme, dentro questi smaglianti pezzi di cielo intriso d'ali tricolori, che Marcella Mencherini riesce a catturare, nel nome risuonante di una sempiterna e sempre più travolgente: "bellezza della velocità".